Perché il Fast Fashion non è più sostenibile - di Valentina Gennari

Perché il Fast Fashion non è più sostenibile

 

Introduzione al contesto Moda odierno

 

La frequenza e la gravità degli eventi climatici che stiamo osservando oggi lascia poco spazio ad interpretazioni: la crisi climatica è ormai un dato di fatto. La comunità scientifica è unanime nell’affermare le attività umane quali responsabili della crisi climatica, in particolar modo a causa dell’aumento dei gas serra immessi nell’atmosfera.

Non possiamo più attendere, è ora di agire.

 

Il mondo della Moda, da sempre considerato come un ambiente in cui convergono insieme arte, bellezza e gioco, si trova di fronte ad una consapevolizzazione sempre maggiore del suo impatto sull’ambiente e sulle persone coinvolte nella sua produzione.

Infatti, tale comparto produttivo, quanto ad impatto ambientale, viene classificato secondo, solo al petrolio. Andando ad analizzare tutta la catena di produzione e di distribuzione, consumo ed eliminazione del prodotto si evince che sia responsabile dell’inquinamento di aria, suolo e acqua, ma non solo, ha originato svariate malattie professionali causate da condizioni di lavoro spesso non idonee a livello manifatturiero. Per avere un’immagine ancora più chiara del suo impatto sull’ambiente, secondo lo studio condotto da “London Sustainability Exchange” la produzione di abbigliamento mondiale è stimata tra gli 80 e i 100 miliardi l’anno e tali cifre sono destinate a crescere. Il problema inoltre riguarda l’eccedenza della merce che va a sommarsi con il cortissimo ciclo di vita degli abiti, trasformandosi in poco tempo in una massa ingente di rifiuti da smaltire. Questi rifiuti, che siano smaltiti nelle discariche o attraverso gli inceneritori, inquinano moltissimo, emettendo e diffondendo sostanze tossiche e pericolose, sia per noi che per l’ambiente.

 

Ad oggi però si può distinguere un nuovo vento di cambiamento, dal quale emergono sempre più idee e soluzioni, che intersecano insieme i principi della sostenibilità ambientale e sociale, con i principi dell’innovazione, al fine di trovare soluzioni che facciano la differenza. Si vede di fatti comparire sul mercato promettenti brand di moda sostenibile i cui prodotti sono pensati per fondere insieme etica ed estetica, rivolgendosi il più delle volte verso i giovani.

 

Che cos’è il Fast Fashion

 

Il fast fashion è l’evoluzione contemporanea del pronto moda, il cui riferimento alla velocità va inteso come il tempo necessario impiegato perché un capo d’abbigliamento venga prodotto da una determinata casa e, successivamente, venga messo a disposizione del consumatore.

La velocità è legata all’intercettazione delle tendenze emergenti e proprio per questo si chiama “moda veloce”, poiché ci impiega solamente poche settimane nel portare a termine tutto il suo processo. Quello di oggi è un contesto in cui le persone vogliono essere sempre aggiornate sulle ultime novità di moda, in cui è presente un ricambio continuo, rapido e potenzialmente virale delle tendenze, che trovano nei social network la loro cassa di risonanza.

 

Globalizzazione e delocalizzazione

 

La caratteristica peculiare di questo modello culturale e produttivo è la “delocalizzazione produttiva”. Consiste nella realizzazione dei capi di abbigliamento in paesi in cui i tessuti e la manodopera hanno un costo molto basso, come l’America Latina, il Sud-est asiatico e l’Europa dell’Est. Il basso costo è dovuto ad una qualità dei tessuti modesta e molto spesso scarsa, aggiunta a costi di produzione minimi.

Il Low cost non ha attaccato solo i brand meno cari, ma ha dato un duro colpo anche al lusso, rivoluzionando il modo di vendere moda. Difatti, uno dei maggiori cambiamenti è visibile nel sistema di vendite a basso costo, che si basa su un continuum di offerte di vestiti, spesso copiati o molto rassomiglianti a quelli firmati, mostrando un completo disinteresse di fronte alla proprietà intellettuale. Inoltre, i prezzi stracciati si affiancano al basso costo psicologico percepito durante l’acquisto del prodotto fast fashion: dopo pochissimi utilizzi (spesso anche dopo uno solo) capi e accessori vengono gettati, senza che la persona percepisca un senso di spreco, considerato per l’appunto un oggetto di poco valore.

A quel tempo era impossibile prevedere che solo dopo una ventina d’anni la moda avrebbe incontrato la necessità di rinnovarsi mensilmente per sopravvivere. D’altro canto, piano piano, le boutique iniziavano a scomparire, sostituite da grandi negozi uguali in tutto il mondo.

La globalizzazione ha così reso lo shopping tutto uguale, a discapito dell’originalità, dei gusti e delle identità culturali. La moda ha iniziato ad adeguarsi ad un mercato globale, attraverso una serie di fusioni, acquisizioni e quotazioni in borsa.

Sulla base di questi meccanismi si comprende il valore dell’etichetta Made in Italy, che diventa un vero e proprio marchio di garanzia di qualità riconosciuto in tutto il mondo. Attraverso questo marchio si dichiara una elaborazione del capo definito da un’alta percentuale di lavoro compiuto in Italia e si certifica la qualità dei tessuti e la raffinatezza dei modelli.

 

 

Chi sono i terzisti: Who made my clothes?

 

Un aspetto di notevole criticità in termini di sostenibilità sociale e ambientale è definito dal ruolo del terzista. All’interno del mondo moda è colui che tesse o confeziona su richiesta di un committente, il quale gli fornisce i materiali necessari. È a partire dallo sviluppo della globalizzazione e della localizzazione che queste figure diventano di fondamentale importanza. Si ricorre al terzista quando l’azienda madre non è più in grado di soddisfare da sé tutti gli ordini che riceve, per cui si trova costretta ad incaricare un’altra azienda per aiutarla.

Il problema è che molto spesso, il terzista selezionato dalla casa madre, non riesce ad onorare tutto l’impegno e cerca un altro appaltatore, ovviamente senza perderci. E così via. Al terzo giro, tra l’azienda madre e il terzista c’è di mezzo un continente e nessun altro contatto. Ciò rende impossibile qualsiasi tipo di controllo, vanificando etichette, codici di comportamento e misure antinquinamento. Insomma, seppure in partenza la casa madre si impegna per far sottoscrivere le norme morali ai suoi collaboratori, poi non ha più maniera di sapere se le sue buone intenzioni siano state attuate o rimangano solamente sulla carta.

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Non finisce qui purtroppo, i terzisti sono anche tra le prime cause della diffusione di falsi. Capita molto spesso che il terzista “infedele” esegua degli esemplari in più con il materiale della casa madre avanzato e li commercializza in modo parallelo. Ecco spiegati quindi tutti quei falsi che si trovano in giro, spesso nella pelletteria, così simili all’originale da sembrare identici. Il danno è enorme, come abbiamo detto in precedenza, tale fenomeno rappresenta un furto ai danni di chi ha studiato, e incentiva la diffusione della criminalità organizzata.

 

La Moda Circolare

 

Per far fronte all’impatto esercitato sull’ambiente dell’industria tessile, l’UE ha pianificato l’accelerazione per la transizione verso un’economia circolare, con l’obiettivo di sviluppare l’innovazione e promuovere il riutilizzo nel settore. Tra le proposte, inoltre, gli europarlamentari hanno chiesto nuove misure per far fronte alla dispersione delle microfibre nell’ambiente, insieme all’adozione di standard più vincolanti nel rispetto del consumo dell’acqua.

Occorre a questo punto menzionare un importante evento “White Sustainable Milan”, la prima fiera di Moda interamente dedicata. È nata nel gennaio 2020 con lo scopo di incentivare i brand ad implementare il modello di economia circolare al proprio business, ampliando l’offerta sostenibile sul mercato. Si propone di creare una dimensione narrativa eco-friendly rivolta al futuro, innestando un’opportunità di dialogo tra i brand. Per la prima edizione ha permesso ai marchi di partecipare gratuitamente, questo anche per la volontà di offrire aiuto a quelle piccole realtà che non hanno la possibilità di attualizzare importanti investimenti, e quindi rendere loro l’accesso al mercato e alla distribuzione più fruibile. Inoltre, organizza aree dedicate per agevolare i buyer che sono in cerca di prodotti da inserire nei loro negozi.

 

La sostenibilità e la circolarità sono temi cruciali e diventano degli imperativi per tutte le imprese. Rispetto al contesto delineato, è difficile sfuggire dalla sensazione che la moda italiana ritroverà se stessa solo se reagirà al fast fashion con qualche forma di slow fashion che sappia riallacciarsi a quell’universo di tradizioni e identità, che è sempre stata la carta vincente della moda Made in Italy. L’anelito al cambiamento è forte, si nota un aumento della consapevolezza relativamente all’urgenza di inserire nel sistema una strategia volta alla sostenibilità e tali aspettative ricadono soprattutto sulle aziende, prima ancora delle istituzioni governative.

Coloro che più di tutti dimostrano di possedere alte aspettative sono i Millennial, uno dei più ampi segmenti demografici di oggi. Si contraddistinguono dalle altre generazioni per avere chiare le proprie esigenze e priorità, differenziandosi nettamente da quella dei loro genitori. Ciò è motivato dal contesto sociopolitico in cui sono cresciuti, definito da un livello chiaramente più alto di scolarizzazione e di accesso all’informazione. Le loro aspettative derivano dunque da una maggiore sensibilità verso le criticità che connotano il presente. Non solo dimostrano di essere a conoscenza delle istanze della moda sostenibile, ma in generale, hanno a cuore i vari temi legati alla sostenibilità. Ambiscono ad un futuro in cui tali problemi troveranno soluzione certa, manifestando in tal modo chiare aspettative positive.

 

Brand activism: come si muovono le aziende

 

Ciò che ci si aspetta dalle aziende è che esse occupino il ruolo di agenti del cambiamento globale. Perché ciò avvenga è fondamentale incorporare l’approccio del cosiddetto “Brand activism”, per il quale si intende la volontà da parte dell’azienda di assumersi responsabilità in ambito sociale, e di partecipare al raggiungimento del bene comune. Si fa dunque riferimento ad una preoccupazione di fondo legata ad aspetti critici e urgenti che affliggono la società.

Attraverso le logiche del brand activism, per esempio, è possibile comunicare con efficacia quei messaggi che trasmessi solo verbalmente non avrebbero grandi chance di arrivare a colpire l’interesse delle persone. È anche vero che, proprio perché veniamo continuamente bombardati di informazioni, ci interfacciamo spesso alla realtà esterna con barriere molto alte. Per cui, solo una comunicazione che sa stupire, prendere alla sprovvista, o anche attivare un ricordo o un sentimento è capace di veicolare un messaggio sul valore della sostenibilità. Essendo caratterizzato da una forte carica semantica e valoriale, possiamo anche dire che è la sostenibilità stessa a prestarsi molto bene a pratiche di comunicazione non convenzionali.

Il fatto che sempre più realtà producano prodotti sostenibili permette al consumatore responsabile di avere più alternative e soddisfare meglio i desideri e i suoi bisogni.

Possiamo dunque affermare che quando la moda, intesa come contenitore di bellezza e divertimento, incontra materiali e processi innovativi che le permette di essere di minimo impatto sull’ambiente ancora di più sa giocare il ruolo di motore simbolico. La consapevolezza di aver trovato il prodotto tanto desiderato, senza costi morali ed etici, di qualità è alla base del principio di un ‘consumatore appagato’.

L’obiettivo della moda sostenibile consiste nel ristabilire un equilibrio che è andato perso, nel ricreare quel legame affettivo tra un capo e il suo indossatore. Per fare ciò, come abbiamo detto, bisogna lavorare per adottare un consumo più critico e consapevole. Sulla base delle riflessioni fatte finora, appare chiaro che un approccio atto a rallentare la corsa del fast fashion è per il momento la soluzione più adatta a contenere i danni ambientali e sociali causati dal sistema moda. In sostanza, bisogna ripensare un nuovo modo di consumare, meno avido, orientato a limitare lo spreco.

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Appare dunque chiaro che l’attivismo a favore di una moda etica deve avvenire da entrambe le parti: aziende e consumatori; a fianco dell’operazione delle istituzioni governative. Le aziende hanno quindi il compito di investire nell’innovazione, sia per quanto riguarda lo sviluppo di prodotti poco impattanti, ma anche dal punto di vista dei lavoratori, implementando sessioni di training e di macchine che possano sostituire l’uomo nei processi di lavorazione rischiosi per la salute. È quindi importante valorizzare i dipendenti, formando professionisti consapevoli dell’impatto causato dal proprio lavoro. Creare una comunicazione coesa con il consumatore, informandolo su ciò che sta facendo l’impresa a favore di questi temi e quali saranno i prossimi passi. 

Dal lato di noi consumatori è altrettanto importante fare la nostra parte scegliendo consapevolmente i prodotti, prediligendo le realtà più rispettose ed evolute.

 

In conclusione

 

Ad oggi sempre più persone si dimostrano più esigenti nei confronti delle imprese, e si aspettano da loro una presa di posizione in virtù di un cambiamento non più sostenibile.

Acquistare brand sostenibili porta a vivere lo shopping con maggiore benessere e positività: comprando meno ma meglio, avremo modo di andare a costituire una capsule wardrobe, ossia un insieme di abiti di qualità che sanno valorizzarci e coprici di materiali che fanno bene alla nostra pelle e, in senso più ampio, anche all’ambiente.

Se quindi, dal lato dei consumatori si possono adottare una serie di comportamenti etici e responsabili attraverso un’acquisita consapevolezza, dal lato delle aziende è importante attivarsi per implementare nelle proprie logiche organizzative le strategie dello sviluppo sostenibile.

Il tutto non fa altro che alimentare quel circuito di benessere verso se stessi e gli altri, di bellezza e identità, arricchendo la nostra quotidianità attraverso i linguaggi della moda.

 

Valentina Gennari, Community Manager e TAMTAMER

Partner