Dire ‘NO!’ al vaccino COVID-19: è negazione della cultura o sua rinegoziazione? di Stefania Gogna

In tanti lo hanno affermato, come motivo di resistenza alla vaccinazione:

Non è sul mercato da abbastanza tempo.

La gente ha contratto il Covid anche dopo il vaccino.

Ho già avuto il Covid, quindi sono protetto.

Ho paura del vaccino. 

La maggior parte delle persone che ha contratto il Covid è sopravvissuta: sopravvivrò anche io!

 

Lungi dall’essere una disamina completa ed esaustiva sul perché delle resistenze al vaccino, questa sarà solo una riflessione semiotica di base su una questione ampia e densa com’è quella del rifiuto a una pratica medico-preventiva.

 

Il tema apre la riflessione, innanzitutto, sulla presenza di un invisibile, o meglio un non-visibile, che abitualmente costruisce una relazione asimmetrica ma di vicinanza con l’individuo: il medico generico, il medico di famiglia, per semantizzarlo maggiormente in ambito culturale.

 

La non-presenza lascia spazio all’ignoto, che trasforma il nostro corpo in un “involucro violabile” (Chi sarà il mio aiutante-competente se non lo è più il mio medico di famiglia?).

Come si negozia il “sapere” (la fonte oggettiva, medica e competente), con il “sentire” (soggettivo, legato e relegato al senso della propria esperienza)?

Quali aspetti del proprio “sentire”, e come, vengono modificati dall’informazione massmediatica, talvolta ridondante e talvolta contraddittoria?

 

Partiamo dal livello più superficiale del discorso: la relazione medico-paziente. In questa specificità e contingenza (il periodo-Covid) ciò che abbiamo di fronte è una non-relazione (medico curante e soggetto-paziente) e una non-malattia (l’individuo non è paziente, o almeno non ancora). Quindi il confine tra malattia e salute è labile e sfumato, non è più un continuum sul quale intervenire, diventa invece valicabile persino dal sentire comune (dal soggetto-collettivo).

 

Contemporaneamente il vaccino definisce l’individuo come paziente, lo configura in un ruolo attanziale ben preciso, quello appunto di paziente.

Tuttavia ciò che costituisce il valore per il paziente – se qui lo trattassimo come paziente -  è la prevenzione-guarigione che deriva dalla conoscenza, la quale proviene dal sapere del medico (e il medico è il proprio medico). Ma in questo caso questo soggetto-competente è sostituito dai suoi simulacri, ossia dalle sue parvenze (i grandi virologi) che si collocano in una posizione di sensibile e visibile distanziamento rispetto all’individuo-paziente: manca la dinamica relazionale medico-paziente, manca la grammatica del discorso in grado di trasferire il sapere dal destinante (medico) al destinatario (individuo).

E’ questa una dinamica che si attua nella continuità e nella vicinanza, mentre la delega al discorso massmediale crea discontinuità, ambiguità e lontananza.

Detto in parole povere, l’individuo si trova in uno stato di disgiunzione rispetto al valore del sapere (Guarire? Prevenire? Non-malattia?) e, in quanto tale, si dota della competenza di un proprio sapere.

 

Questo spostamento da un sapere-competente-trasparente a un sapere auto-costruito-opaco finisce per assumere in sé le connotazioni di un sentito o, peggio, di un sentito dire, che ha lo scopo di rinegoziare il rapporto oggetto (il mio corpo involucro)–soggetto (l’io), nei termini di un’autodeterminazione.

 

Se il dovere deriva dall’esigenza dell’individuo di farsi carico della sua salute, il potere (decidere da sé, informarsi da sé) trae origine proprio da quell’oggettiva assenza del medico (magari solo percepita) e dalla distanza operata involontariamente dalla discorsivizzazione reiterata intorno agli esperti virologi.

 

Stefania Gogna, Semiologa con lunga esperienza in Ricerche Qualitative Internazionali

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